Manhattan
Quando il Vermouth è entrato all’interno della miscelazione statunitense, ne ha cambiato per sempre i connotati. Il Manhattan è il più chiaro esempio della “Vermouth revolution”.
- Scheda
- Storia
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Sapore
Gusto
Sensazione
Aroma
Consistenza
Numeri
Calorie
Ten. alcolico
Preparazione
Versa tutti gli ingredienti in un mixing glass ben freddo, stirra con ghiaccio a cubetti e filtra in una coppetta ghiacciata. Infine, sprizza il twist di arancia.
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Indice
Tra storia e leggenda. Se dovessimo scegliere il sottotitolo per un’opera monografica sul cocktail Manhattan, “tra storia e leggenda” sarebbe quello più appropriato. Proviamo a fare un po’ di chiarezza sul drink che ha cambiato il modo di miscelare e di bere dell’intero pianeta.
Nessuna connessione con Winston Churchill
No. Non è stato inventato dalla madre di Winston Churchill. Questa versione della storia racconta che la signora Jennie Jerome, moglie americana di Lord Randolph Churchill (padre del futuro Primo Ministro inglese), organizzò verso la fine del 1874 al Manhattan Club di New York un banchetto per Samuel J. Tilden, candidato alle elezioni presidenziali del 1876 per il partito democratico (elezioni che perse con il 51% dei voti a suo favore, con un grande elettore in meno rispetto al suo rivale repubblicano).
La leggenda narra che il Manhattan nacque proprio in quell’occasione mondana. Purtroppo, la Signora Churchill in quel periodo dell’anno stava per partorire il figlio Winston in Inghilterra (30 novembre 1874) ed è quindi impossibile che si trovasse a New York ad organizzare banchetti politici e a dire ai barman “cosa e come miscelarlo” per allietare i partecipanti all’evento.
Il Manhattan Inn
David Wondrich su Imbibe! ci incoraggia a percorrere un altro sentiero.
In una pubblicazione del 1922, William F. Mulhall, bartender all’Hoffman House dal 1882 al 1915, sostiene che il drink sia stato inventato da un barman di nome Black che gestiva un locale distante “dieci porte” da Houston Street, a Broadway, negli anni ’60 dell’Ottocento. La perizia di ricerca di Wondrich è sempre preziosa per gli appassionati della materia storica: negli anni ’60 del XIX secolo l’unico Black gestore di locale di cui si ha notizia è un certo John Black, che miscelava drink sulla 130th Street, decisamente più distante delle “dieci porte” di riferimento spaziale dato da Mulhall. Diverso il discorso per il decennio successivo: ben tre differenti Black gestivano saloon a New York in quegli anni e fra questi George Black, al 493 Broadway, dal 1874 al 1881, anno della sua morte. Anche in questo caso le distanze non convincono, per quanto siano più vicine alla descrizione di Mulhall, ma quello che ci fa pensare di essere sulla strada giusta è il nome del locale gestito da George Black: il Manhattan Inn.
Vermouth dolce o dry
Fino ad oggi non si è ancora arrivati a capo della questione storica.
Quello che possiamo fare è ragionare sul concetto di Manhattan e vedere lo sviluppo cronologico delle varie ricette nello scorrere degli anni. Il Manhattan è un Vermouth Cocktail reso più strutturato dal Whiskey o un Whiskey Cocktail (vedi Old Fashioned) ingentilito dal Vermouth. Pochi fronzoli.
A questo modo di vedere il Manhattan sembra ispirarsi anche Harry Johnson, autore di una delle menzioni a stampa più importanti sotto il punto di vista storico: sul suo New and Improved Bartenders’ Manual del 1888, riporta Whiskey e Vermouth in parti uguali, addizionati di gum syrup, bitters (Johnson consiglia l’Orange bitters), Curaçao o Assenzio (se richiesto dal cliente). Una versione “Improved” della famiglia Cock-Tail, dunque. Quello che colpisce di questa ricetta è che non viene specificata la tipologia di vermouth da impiegare, e lo stesso Johnson raccomanda di chiedere al cliente se preferisce il proprio drink più secco o più dolce: che sia un indizio della possibile doppia natura del Manhattan, una a base Vermouth dolce e l’altra a base Vermouth dry?
Il primo ricettario
Dubbio confermato anche dalla primissima menzione storica del drink su un ricettario, quella del 1884, sul The Modern Bartenders’ Guide di O. H. Byron: sul libro se ne riportano due versioni, la No.1 composta di French Vermouth e Whisky in rapporto 2 a 1, Angostura Bitters (per la prima volta menzionato nella storia dell’editoria) e gum syrup, e la No.2 a base di Italian Vermouth e Whisky (in proporzione 1 a 1), Curaçao e Angostura Bitters.
Italian Vermouth e French Vermouth
Una importante precisazione. Fino a pochi anni fa, ritrovare su un antico ricettario la dicitura “French Vermouth” portava subito a pensare all’utilizzo nella preparazione del drink della variante dry del vino aromatizzato all’assenzio, tipica della tradizione transalpina. Ma una ricerca più approfondita potrebbe portare questa associazione ad essere meno univoca. E’ vero che la Francia ha sempre prodotto dei Vermouth dry di altissima qualità, ma sarebbe errato pensare che tutta la produzione nazionale si giocasse su quell’unica tipologia merceologica.
Un’altra categoria, molto apprezzata a metà Ottocento, era il Vermouth di Chambery: Chambery è oggi il capoluogo della Savoia, un territorio passato dal dominio sabaudo alla repubblica Francese nel 1860 come ringraziamento per l’aiuto offerto dai francesi nella II Guerra d’indipendenza italiana. Appartenente al Ducato di Savoia, poi Regno di Sardegna, per circa tre secoli, ha risentito dell’influsso della città più importante dei possedimenti sabaudi, ovvero Torino.
Torino fu anche la città che diede i natali al Vermouth nel 1786, grazie alle sperimentazioni di Antonio Benedetto Carpano. Le prime testimonianze del Vermouth de Chambery sono databili intorno al 1820, circa trent’anni prima della data di fondazione della Noilly Prat & Co., la prima azienda ad aver prodotto il Vermouth dry.
Il Vermouth de Chambery, quindi, si rifaceva alla struttura ed alla dolcezza del Vermouth piemontese, caratterizzato da un decisa presenza zuccherina (almeno 130 g/L, la medesima che oggi è indicata per la realizzazione dei produttori di Vermouth del dipartimento della Savoia), ma realizzato a partire da un vino ottenuto da una cultivar di uva differente, che conferiva al prodotto francese sentori più floreali e agrumati.
Per concludere, non è da escludere che la ricetta presentata sull’opera di O.H. Byron con il nome di Manhattan Cocktail No.1 e preparata con “French Vermouth” in realtà fosse realizzata con un vermouth dolce, e non con la sua variante dry.
Nel medesimo anno il Manhattan compare su altre due opere dedicate alle bevande miscelate, il How to Mix Drinks della G. Winter Brewing Co. e il Scientific Bar-Keeping di J. W. Gibson.
Cambiano le proporzioni
Appena qualche anno più tardi, nel 1887, Jerry Thomas inserisce il Manhattan nella terza edizione del suo The Bar-Tender’s Guide: il Vermouth la fa da padrona, utilizzato in quantità doppia rispetto al Rye whiskey, con l’aggiunta di Boker’s bitters, Curaçao o Maraschino e gum syrup (sempre opzionale nell’ipotesi che il cliente lo preferisca più dolce). Anche questa volta la tipologia di Vermouth non viene indicata.
A stravolgere la struttura del Manhattan in maniera definitiva è, nel 1891, William Schimdt sul suo The Flowing Bowl: le proporzioni fra Whiskey e “vino Vermouth” sono ribaltate rispetto a quelle di Jerry Thomas e di O.H. Byron. Il Whiskey ora è il prodotto alcolico in maggiore quantità. Oltre al distillato statunitense e al vermouth, la ricetta prevede gum syrup, Bitters, Assenzio e Maraschino (quest’ultimo se gradito dal cliente).
Harry Craddock
Anticipatore del Dry Martini Cocktail, il Manhattan ha seguito nel corso del XX secolo il medesimo sviluppo del Martini verso una versione più dry e meno ricca di componenti aromatici e dolci quali l’Assenzio, il Maraschino e il Curaçao.
Nel 1930 Harry Craddock sul The Savoy Cocktail Book ne riporta quattro differenti versioni: la No.1, di impronta più storica e affine a quella di Jerry Thomas; la No.2, quella che dalla seconda metà del Novecento è stata la ricetta canonica del cocktail fino alla fine degli anni ‘90, a base di Canadian Club (spesso usato al posto del Rye Whiskey, vista la sua maggiore facilità di reperimento, soprattutto durante gli anni del Proibizionismo), Italian Vermouth e Angostura bitters; la Sweet, senza l’utilizzo di bitters; e la Dry, in cui l’apporto aromatico del Vermouth è suddiviso fra le sue due varianti, quella dolce e quella secca, come oggi viene preparato un Perfect Manhattan.
Sweet, Dry, Medium e De Luxe
David Embury, nel 1948, inserisce il Manhattan fra i “six basic Cocktails” sul suo The Fine Art of Mixing Drinks, insieme a Martini Cocktail, Old Fashioned, Daiquiri, Sidecar e Jack Rose, come ad evidenziare la portata enorme del drink, sia nei consumi che per la storia della miscelazione.
Embury riporta quattro ricette del cocktail: la Sweet, due parti di Whisky, una di Italian Vermouth e Angostura bitters; la Medium, dove è previsto l’utilizzo contemporaneo di French e Italian Vermouth, le cui quantità sommate risultano essere la metà di quella del Whisky, e Angostura bitters; la Dry, con French Vermouth, Whisky e Angostura bitters; e Manhattan De Luxe, con Vermouth Cinzano e Bonded whisky.
Embury precisa che Rye e Bourbon Whiskey sono intercambiabili nella ricetta, per questo non specifica mai l’utilizzo di una tipologia di distillato di cereali americano rispetto all’altra. Aggiunge inoltre che per molti palati il connubio French Vermouth e Whisky non è una combinazione gradevole, suggerendo di variare il rapporto fra Italian Vermouth e Whisky per venire incontro alle richieste del cliente che volesse degustare un Manhattan dry, medium o sweet; apre alle variazioni aromatiche con l’inserimento di Chartreuse (liquore di erbe) o Curaçao (liquore di arancia); e conclude scrivendo che, proprio come il Martini, la specificazione di un distillato di riferimento può portare ad interessanti variazioni sul risultato finale, portando ad esempio il Brandy Manhattan, l’Applejack Manhattan e il Rum Manhattan (Cuban Manhattan se effettuato con un rum cubano).
La canonizzazione IBA del Manhattan
Il Manhattan fa parte della lista IBA dalla prima codifica del 1961.
Inizialmente miscelato con Whisky canadese, nell’edizione del 1986 (in cui viene riportato in tre differenti versioni, quali Sweet, Dry e Perfect o Medium, categorizzazioni che verranno riprese anche nelle due codifiche successive) il Rye whiskey sostituisce il distillato del Grande Nord Bianco.
Nelle rielaborazioni del 1993 e del 2004 le due tipologie possono essere utilizzate indistintamente per la creazione del Manhattan. A partire dalla codifica del 2011, invece, il Rye Whiskey è l’unico spirito menzionato dall’Associazione.
La struttura
Per quanto riguarda la struttura gustativa del drink, i tre ingredienti base con cui oggi viene miscelato il Manhattan (Whiskey, Vermouth dolce e Bitters) sono come le tre gambe di uno sgabello che non barcolla mai, sempre in armonia fra di loro, anche giocando sulle loro proporzioni o innestando prodotti di differente natura.
Il drink resta un classico intramontabile e un punto di partenza per variazioni sempre accattivanti. Tutto quello che dovete fare per preparare un buon Manhattan è utilizzare prodotti di qualità e gestire al meglio la diluizione necessaria a permettere l’integrazione fra gli ingredienti di cui è composto.
Indice
Bourbon o Rye Whiskey?
Oggi il Bourbon è ancora più comune, ma la versione che preferisco maggiormente è col Rye, perché lo trovo un sapore più adatto a questo drink.
Proporzioni del Manhattan
Diciamo che lo standard è prepararlo con un parte maggiore di Whiskey rispetto a quella del Vermouth ed è quello che il cliente si aspetta, ma potresti pensare di preparalo in parti uguali (50:50) o sbilanciato verso il Vermouth, ottenendo un drink più amabile come il Reverse Manhattan.