Dry Martini Cocktail
Il drink emblema del variare della tendenza di gusto nei palati dei consumatori di tutto il mondo. Dalla natura dolce e abboccata alla versione secca e vinosa, lungo un percorso di oltre un secolo.
- Scheda
- Storia
- Note
Ricetta
Sapore
Gusto
Sensazione
Aroma
Consistenza
Numeri
Calorie
Ten. alcolico
Preparazione
Versa tutti gli ingredienti in un mixing glass ben freddo, stirra con ghiaccio a cubetti e filtra in una coppetta ghiacciata. Infine, sprizza un leggero twist di limone (se richiesto) e decora con un’oliva.
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Indice
Premesse
Partiamo da alcuni punti saldi per provare a sbrigliare la selva di notizie storiche dietro al Dry Martini Cocktail, uno dei drink (potenzialmente) più facili e (pragmaticamente) più difficili da miscelare.
Il Dry Martini Cocktail per come lo intendiamo oggi verrà miscelato per la prima volta solo a partire dalla fine dell’Ottocento. La sua storia è fortemente connessa al variare dei gusti dei consumatori americani, che modificheranno le loro preferenze dai sentori dolci e morbidi del Manhattan verso un bere più secco e deciso.
Un lungo percorso
I primi passi evolutivi verso il Dry Martini Cocktail sono da ricercare molto lontano, a partire dal 1862: in quell’anno viene stampato il The Bar-Tenders’ Guide di Jerry Thomas, su cui appaiono due ricette per noi molto interessanti. Sono la 111 e la 112 del ricettario, rispettivamente quella dedicata al Gin Cocktail e al Fancy Gin Cocktail.
Gli ingredienti delle due miscele sono i medesimi: “gum syrup”, Bogart’s bitters, Curaçoa (sic) e Gin (nella sua versione olandese, quindi si tratta più correttamente di Genever). Cambia il metodo di preparazione: il primo è shakerato, il secondo eseguito con tecnica Stir. Manca il vermouth? Bravo, ottima osservazione! Il Vermouth a quei tempi è un prodotto di recentissima reperibilità sul mercato americano e per molto tempo verrà consumato come un qualsiasi altro vino di importazione, bevuto per lo più in purezza. Fonti storiche indicano che, benché fosse conosciuto dal 1830 negli States, il Noilly Prat, il dry vermouth francese per eccellenza, sarà acquistabile con una certa continuità solo a partire dal 1851 e inizialmente sarà distribuito e consumato prima nella sola New Orleans, per poi giungere a San Francisco e dopo qualche anno nel resto della nazione.
Per quanto riguarda invece la versione italiana del vermouth, quella più dolce e aromatica, bisogna aspettare il 1860 perché il mercato americano ne venga rifornito in maniera costante. Come ci fa notare Dale De Groff nel suo The New Craft of the Cocktail, l’importanza dei due drink estrapolati dal libro di Jerry Thomas sta nel mostrarci come l’architettura del Martini stesse evolvendo: due cocktail a base gin olandese integrati con elementi a modificare il sapore del distillato, come curaçao, Bitters e “gum syrup”.
Alla scoperta del Vermouth italiano
Il vermouth dolce italiano a partire dalla metà degli anni ’60 dell’Ottocento comincia un’ascesa fra i consumatori d’oltreoceano con pochi precedenti nella storia: lo ritroviamo riportato sulle pagine del Bonfort’s Wine and Liquer Circular come una bevanda da preferire ai Cock-tail durante l’aperitivo, una versione più urbana ed elegante dei distillati “bittered” della tradizione statunitense, ed importanti Hotel, come il Delmonico’s o il Metropolitan di New York, cominciano ad inserire alcune etichette sulla propria carta dei vini.
Siamo negli Stati Uniti e, come precisa David Wondrich su Imbibe!, prima o poi, da una qualsiasi prodotto alcolico, qualche bartender proverà a tirarci fuori una bevanda miscelata: e il tentativo più canonico è quello di utilizzare il Vermouth in sostituzione a un distillato e farne la versione Cock-tail, implementata con Bitters e altri ingredienti aromatici utilizzati di frequente all’epoca, come il Maraschino o il Curaçao (come puoi riscontrare nella ricetta del Vermouth Cocktail). Dopo i primi entusiasmi iniziali, i bartender americani cominciano a rivedere e ricalibrare l’utilizzo del Vermouth in miscelazione per, infine, trovare al prodotto italiano il ruolo che lo consacrerà all’interno di alcuni dei più famosi drink della storia: quello di conferire alle ricette in cui viene impiegato un’aromatizzazione molto delicata e strutturata, e una dolcezza più discreta di altri ingredienti.
Dal Manhattan a James Bond
Un altro tassello sulla strada che ci porta al Dry Martini lo incasella Gary Regan sul suo The Joy of Mixology. Lo storico della miscelazione precisa che nella sua visione degli eventi accaduti nel corso dell’Ottocento, l’antenato del Martini Cocktail sarebbe da ricercare nel Manhattan.
Secondo i suoi approfondimenti, il Martini compare sui libri di miscelazione verso la fine del XIX secolo. Le ricette riportate sarebbero molto simili, se non del tutto identiche, a quelle del Martinez, un drink di cui si incomincia a sentire parlare intorno agli anni ’80 e che viene descritto come un Manhattan in cui il Gin (o il Genever) sostituisce il Whiskey. Il Martinez sarebbe quindi un “twist” sul Manhattan, ed il Martini una variante del Martinez stesso.
I primi Martini (riportati con il nome di “Martine” o “Martena”) venivano preparati a partire da Old Tom gin e Vermouth dolce in identiche quantità, Bitters e pochi altri ingredienti (fra cui Curaçao, Assenzio e gum syrup), come riporta anche la ricetta presente sull’edizione del 1888 del New and Improved Bartenders’ Manual di Harry Johnson, la prima menzione a stampa del drink con il nome Martini Cocktail. Il drink nel ricettario di Johnson viene stirrato e decorato con una scorza di limone. Attenzione: stiamo parlando di Martini Cocktail, non di Dry Martini Cocktail. La differenza la capirai proseguendo la lettura.
Pochi anni dopo, nel 1891, William Boothby sul suo American Bartender ci descrive la bevanda miscelata composta di solo Old Tom gin, Vermouth rosso e Angostura Bitters, segno del progressivo modificarsi del gusto dei consumatori del periodo, che preferivano non addolcire ulteriormente i due ingredienti principali (il vino fortificato donava già un sufficiente contributo dolce al cocktail) e non aromatizzare eccessivamente il risultato finale con prodotti come maraschino, Curaçao, Assenzio o altro, compito che da quel momento in poi sarebbe spettato solo alle note del Vermouth e dei Bitters.
Arriva il Vermouth francese
Sul finire dell’Ottocento compare anche la prima menzione di un Martini Cocktail realizzato con il Vermouth francese, tradizionalmente secco: la riporta il New York Herald, in un articolo del 1890 in cui viene descritto come questa versione maggiormente dry venisse servita prima di pranzo sulla rotta di una compagnia francese di viaggi transatlantici.
Siamo agli inizi del Novecento quando i connotati del Martini Cocktail cominciano a distaccarsi in maniera irrevocabile da quelli della generazione precedente, e il drink si standardizza sugli ingredienti che oggi gli attribuiamo. Nel 1904 Frank P. Newman, un barman inglese trasferitosi a Parigi, in servizio al Café de la Paix, pubblica un ricettario in francese, l’American Bar – Recettes de Boissons Angliaises et Americaines, in cui compare per la prima volta il drink presentato con il nome di Dry Martini Cocktail, formato da Gin e Vermouth secco in pari quantità, aromatizzato con qualche goccia di Angostura o Orange Bitters e decorato con scorza di limone, ciliegia o un’oliva a seconda del gusto del cliente.
Nel 1905 Charles Mahoney, capo barman dell’Hoffman House Hotel, pubblica l’Hoffman House Bartender’s Guide, nel quale compaiono tre ricette per noi molto interessanti oltre a quella del Martini Cocktail (quest’ultima molto simile a quella di Harry Johnson): quelle del The Mahoney Cocktail, del J.P.C. Cocktail e del Nutting Cocktail. La prima è composta in parti uguali di London Dry gin e French Vermouth, con un dash di Orange Bitters; la seconda, molto simile, prevede la sostituzione del bitters con una fetta di arancia. Entrambe le versioni vengono shakerate e versate in una coppetta da cocktail. La terza ricetta, quella del Nutting Cocktail, prevede due terzi di Plymouth gin, un terzo di French vermouth, un dash di Orange bitters. Il tutto stirrato e servito in coppetta. Ti riporta alla mente qualcosa?
Dal Proibizionismo alle Seconda guerra mondiale
Durante gli anni del Proibizionismo, il Gin a disposizione dei pochi barman rimasti e costretti a lavorare segretamente negli Stati Uniti è un prodotto di pessima qualità, creato a partire da materie prime scadenti o con tecniche che non riescono a riprodurre la precedente eleganza del distillato, difficilmente utilizzabile per provare a rendere nel bicchiere quell’equilibrio di sapori e aromi che aveva portato il Martini Cocktail alle proprie vette stilistiche. Ecco il motivo del perché per tutti gli anni ’20 del Novecento il drink esce di scena e vi rientrerà solo col 1933. Sarà il Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt a sancire la fine del Noble Experiment alle 17:27 del 5 dicembre del 1933 brindando, guarda caso, con un Martini Cocktail.
Fino a dopo la Seconda guerra mondiale il drink resterà standardizzato a base Gin e nasceranno ricette sempre più “dry”, con un uso sempre minore del Vermouth francese, fino ad arrivare alle versioni più secche del Montgomery’s Dry Martini (in cui il rapporto fra gin e vermouth è di 15 a 1, la versione più amata da Ernest Hemingway, che la cita anche nel suo capolavoro Di Là dal Fiume e tra gli Alberi) e del Churchill Martini (senza nessuna presenza di vermouth).
L’ascesa della Vodka e i Fake Martini
Fino agli anni ’60 il Gin resta il protagonista principale del Martini Cocktail, ma l’ascesa della Vodka negli States sembra irrefrenabile e ben presto, a metà del decennio, conquista il proprio posto d’onore nella miscelazione sostituendo il distillato di origine inglese nella ricetta della bevanda miscelata per antonomasia. Da quel punto in poi la storia del drink diventa di proprietà delle mode e delle tendenze del momento, in un susseguirsi di implementazioni che hanno poco a che vedere con la ricetta originale. A partire dagli anni ’80 il termine Martini verrà affibbiato a qualsiasi drink di nuova creazione servito in coppetta senza ghiaccio, come il French Martini, l’Espresso Martini o il più attuale, e recentemente risalito agli onori della cronaca, Porn Star Martini.
La canonizzazione IBA del Dry Martini Cocktail
Presente nella lista IBA dalla prima codifica del 1961 (insieme alla versione Sweet), nella seconda del 1986 sarà presente come categoria di bevanda miscelata accompagnata dalle sotto-varianti Dry, Sweet e Perfect o Medium.
Nella terza edizione del 1993 il drink verrà nuovamente presentato in maniera univoca, per variare nuovamente nel 2004 con l’elenco di 4 differenti tipologie: Dry, Perfect, Sweet e Vodka Martini.
Nelle edizioni del 2011 e del 2020 il Dry Martini Cocktail sarà riportato in tutta la sua purezza alla versione che oggi siamo soliti miscelare.
Indice
Bilanciamento del Dry Martini Cocktail
Quello che ho riportato è un bilanciamento del cocktail abbastanza standard ed efficace. Se desideri che il Martini sia meno secco, aumenta la quantità di Vermouth.
Che Gin usare nel Dry Martini Cocktail?
Personalmente ti consiglio un classico London Dry, come N°3 London Dry Gin. Trovo che invece in questo caso l’utilizzo dei Gin di concezione contemporanea sia meno efficace.
Che Vermouth usare nel Dry Martini Cocktail?
Se vuoi un risultato più ossidato orientati verso Vermouth con quelle caratteristiche, altrimenti, per un cocktail più fresco, scegli Vermouth più floreali.
Lo zucchero e il Dry Martini Cocktail
Una goccia sciroppo di zucchero contribuirà a donare corpo e una certa rotondità. Personalmente la trovo un’aggiunta molto interessante. Attenzione però: l’amante di questo cocktail dal palato allenato ti sgamerà e potrebbe non apprezzarla al 100%.
Bitters
Utilizzare Bitters aromatici per aggiungere note o contrasti aromatici è una cosa oggi considerata normale. Ti basti pensare all’iconico Martini di Agostino Perrone al Connaught Hotel: con un carrello al tavolo ed una scheda profumata con 5 aromatic bitters elaborati dallo staff, si ha la possibilità di scegliere quale aromatizzante vuoi aggiungere alla tua bevuta.
Shake
Se solo qualche anno fa avessi parlato di questo cocktail shakerato mi avrebbero bannato: “guai a shakerare il Vermouth!”, urlavano gli integralisti. Oggi è invece normale potere considerare anche questa tecnica, col risultato che il cocktail sarà molto freddo e la nota secca risulterà un po’ mascherata.
Coppetta corretta
Questo è un errore che spesso mi capita di vedere. Se in partenza un Martini contiene circa 60-70 ml di ingredienti , se lo vai a versare in una coppetta da 180 ml o più, si perderà. La coppetta corretta è da 100-120 ml!
Aperitivo?
Sì, ma bello potente come piace a Prince di Drink Factory. Vacci piano.