Dirty Martini
Il Martini che per ottenere la propria fama l’ha “fatta davvero sporca”. Creazione, oblio e rinascita di uno dei drink meno politically correct che ci sia.
- Scheda
- Storia
- Note
Ricetta
Sapore
Gusto
Sensazione
Aroma
Consistenza
Numeri
Calorie
Ten. alcolico
Preparazione
Versa tutti gli ingredienti in un mixin glass ben freddo, stirra con ghiaccio a cubetti e filtra in una coppetta ghiacciata. Infine, sprizza un leggero twist di limone (se richiesto).
Info
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Indice
“David sa tutto!”
Ancora una volta mi trovo a dover ringraziare il lavoro storiografico svolto da David Wondrich. Se in passato, specialmente agli inizi della mia carriera, non mi facevo troppe domande su ciò che stavo miscelando, lasciandomi indirizzare da bartender con più esperienza della mia nella realizzazione dei drink, Wondrich nel corso degli anni è riuscito a dissipare dubbi e a correggere quegli errori che ho ereditato da professionisti più anziani di me. Oggi, grazie al suo The Oxford Companion to Spirits & Cocktails, pubblicato nel 2021, anche il Dirty Martini ha delle zone d’ombra meno ampie.
Le prime testimonianze
Wondrich ha reperito alcuni documenti che testimoniano una prima curiosa versione (direi più un antenato) di quello che oggi è il Dirty Martini.
Nel 1901 al Waldorf-Astoria Hotel di New York, uno dei bartender della struttura, John E. O’Connor, era solito impreziosire il suo Dry Martini Cocktail aggiungendo all’interno della ricetta alcune olive, che andava a pestare con il Gin ed il Vermouth, realizzando una sorta di infusione rapida ante-litteram. Certo, siamo distanti dalla salamoia di olive che oggi caratterizza il Dirty Martini, ma questa aromatizzazione ci mette sulla giusta strada verso le evoluzioni successive.
A conferma di questa tendenza a preparare il Dry Martini Cocktail aromatizzato alle olive viene in nostro soccorso un libro del 1912, il Bartenders’ Manual pubblicato dalla Bartenders’ Association of America. Fra le pagine dell’opera spicca un Philippino Cocktail realizzato pestando un’oliva sul fondo di un mixing glass, a cui si aggiunge aromatic bitter, 1/5 di vermouth francese, 1/5 di brandy e 3/5 di gin.
Il primo ricettario
Bisogna aspettare altri 20 anni perché la struttura del Dirty Martini venga menzionata per la prima volta su un ricettario. Nel 1931, infatti, viene pubblicato il My New Cocktail Book, scritto da G.H. Steele. A pagina 90 del libro compaiono 3 ricette con il medesimo nome: il Perfect, il Perfect No-2 e i Perfect (a la Hyland). Se i primi due ricordano quello che poi verrà canonizzato come Perfect Martini (Gin, Vermouth francese secco e Vermouth dolce italiano), il terzo risulta inconfondibile.
La ricetta prevede Plymouth Gin e Vermouth francese in pari quantità, alcuni dash di 3 bitters diversi (Aromatic Bitters, Orange Bitters e Creole Bitters) e un teaspoon di “olive brine”, salamoia di olive.
Oblio e rinascita
Stando così le cose, sembra del tutto smentita la teoria che considera il Presidente degli Stati Uniti d’America Franklin Delano Roosevelt uno degli ideatori del Dirty Martini. Non è escluso che ne fosse un ammiratore smodato, ma arrivare ad attribuirgli la paternità è pura propaganda politica.
Comunque sia, dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ad inizio anni ’90, il Dirty Martini pare sia rimasto un po’ nell’ombra rispetto al suo fratello maggiore, il Dry Martini Cocktail, che parallelamente percorreva la sua strada verso la progressiva dry-zzazione e verso la sostituzione nella ricetta della vodka al gin. L’ultima decade del Novecento, al contrario, è stato un decennio fortunato per il Dirty Martini, che ha visto aumentare le sue richieste ai banconi di tutti i bar del mondo, a partire dagli Stati Uniti.
Questo piccolo intervallo temporale di fama ha permesso al drink di essere traghettato verso la Cocktail Renaissance di inizio Millennio, operando conseguentemente sulla sua struttura una serie di modifiche e perfezionamenti che lo hanno portato alle vette che oggi conosciamo.
Alcune varianti interessanti
Complice quindi la rinnovata cultura della miscelazione nata a partire dal Duemila, molti bartender hanno provato a dare al Dirty Martini una nuova connotazione, avvolgendo la ricetta di attenzioni alla materia prima e tecniche di preparazione che il drink non aveva mai conosciuto prima. Dall’infusione delle olive con teabag al Belcampo di Santa Monica, all’addensamento della salamoia con amido di tapioca al Llama Inn, per creare una vernice vegetale da spennellare all’interno del bicchiere, fino al fat-wash del gin al Petit Trois di Los Angeles e all’Olives 7 Way di Naren Young.
Quest’ultima ricetta prevede la totale esclusione della salamoia e la sua revisione della ricetta con un distillato di olive di Cerignola, un aromatic bitters alle olive, un vermouth macerato con olive e uno shrub di aceto, zucchero e olive. Una volta terminato, il drink viene decorato con una essenza profumata di olive e tre gocce di olio extravergine di oliva. Un’ode alle olive, insomma.
Indice
Gin o Vodka?
È molto facile imbattersi in ricette e versioni che riportano la Vodka al posto del Gin, distillato che normalmente è preferito in questo drink.
La salamoia di olive del Dirty Martini
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