Isle of Harris Gin

Isle of Harris Gin: il Martini non diluito del Dukes

Come ho scoperto Isle of Harris al Dukes Hotel di Londra, dove Alessandro Palazzi, con maestria e sensibilità, ha reso indimenticabile l’esperienza di un Dry Martini unico.

Indice

    Quando Fine Spirits mi ha chiesto di scrivere un articolo sul gin Isle of Harris mi è subito venuta alla mente la prima indimenticabile volta che ho incontrato la sua bottiglia al bancone di un bar. A voler essere precisi, nemmeno si trattava del bancone del bar. Ma andiamo per gradi, perché le cose da dire sono tante e rischio di farmi prendere dall’entusiasmo e dall’intensità del ricordo, abbandonando la chiarezza espositiva che mi sono ripromesso di mantenere per iniziarti a questo distillato dalle note uniche.

    Il protagonista

    Isle of Harris è un gin scozzese, prodotto nella omonima Isola di Harris, che in realtà non è un’isola, ma due, però su un unico territorio. Provo a spiegarmi meglio. Ci troviamo nelle isole Ebridi Esterne, un arcipelago al largo delle coste nord-occidentali della Gran Bretagna e delle isole Ebridi Interne, separato da esse da uno stretto conosciuto con il nome di The Minch, dove forti burrasche e mitologiche tempeste rendono la vita affannosa ai marinai e agli abitanti costieri. La maggiore delle isole Ebridi Esterne è la Isola di Lewis e Harris che, oltre a non possedere un nome univoco (è possibile, infatti, trovare diversi appellativi per indicarla, come ad esempio “Lewis with Harris”, “Harris with Lewis”, Leòdhas agus na Hearadh in gaelico o il più colloquiale “Isola Lunga”), viene percepita dalla popolazione che la abita come due differenti isole, collegate da uno stretto istmo che la segmenta nella isola di Lewis, nel nord, e nella Isola di Harris, a sud. Per semplice curiosità, l’isola di Lewis e Harris è la terza più grande isola del Regno Unito, dopo la Gran Bretagna e l’Irlanda.

    Sull’isola di Harris nel 2015 ha aperto la Isle of Harris Distillers Ltd., azienda produttrice dell’omonimo gin. Il distillato si presenta con una gradazione di 45% abv e viene realizzato in alambicchi di rame capaci di catturare la quintessenza del territorio. Fra le nove botaniche che lo compongono spicca la Sugar Kelp, una rara alga che cresce ad elevate profondità, raccolta a mano da una squadra specializzata di sub, capace di connotare ogni goccia di gin con una dolcezza salmastra in cui la memoria rimane impigliata, un po’ come le aringhe e le aragoste nelle nasse dei pescatori isolani. A chiudere il bouquet aromatico del distillato contribuiscono inoltre le note di ginepro, di pino, di agrumi e un lungo e caldo finale di pepe.

    Il personaggio secondario

    Ma io? Dove, come e quando ho scoperto il gin Isle of Harris? Devo essere sincero, non è una conoscenza di lunga data, la mia: d’altronde, come scritto qualche riga sopra, la distilleria ha aperto solo nel 2015. Quindi non mi sono sentito invaso da eccessivi sensi di colpa quando ho notato la bellissima bottiglia del prodotto (creata a richiamare le increspature del mare) in uno dei bar più iconici di tutto il mondo. Ma anche in questo caso, andiamo per gradi.

    A maggio 2023 ho raggiunto a Londra per qualche giorno un mio collaboratore che stava seguendo una consulenza in cui Drink Factory era impegnata ad affiancare un importante gruppo internazionale. Dopo un’intera giornata passata fra riunioni, formazione allo staff, incontri con fornitori e controllo alle preparazioni del servizio serale, conclusosi il nostro compito, il mio collaboratore ed io abbiamo deciso di concederci un giro per le strade del centro londinese, con la malcelata speranza di inciampare “casualmente” in qualcuno dei cocktail bar iconici che hanno reso la Capitale Inglese uno dei fari della mixology contemporanea. Dalla stazione metropolitana di Knightbridge abbiamo deciso di dirigerci verso Hyde Park Corner, lasciando il più famoso giardino inglese alla nostra sinistra, e di proseguire per Piccadilly, tenendo Green Park sulla destra. Raggiunta Piccadilly avevamo due possibilità: addentrarci a Mayfair o ruotare su noi stessi di 180° e perderci fra St. James e Pall Mall. Dato che io e il mio collaboratore non siamo tipi da Mayfair, abbiamo deciso per la seconda opzione. A voler essere precisi, non credo che possiamo definirci nemmeno tipi da St. James e Pall Mall, ma tant’è. Insomma, nel vagare per una delle zone più caratteristiche di Londra, la nostra attenzione si fa catturare da una serie di macchine d’epoca che entrano ed escono da una piccola piazzetta chiusa. Ci sporgiamo per vedere cosa riesca a calamitare quei veicoli dal fascino antico e davanti a noi si erge il Dukes Hotel.

    Il Dukes e l’arte dell’ospitalità

    Il mondo della mixology si divide in due macrocategorie di bartender: chi conosce il Dukes e ci è stato e chi non ne ha mai sentito parlare. Fondato nel 1908, il Dukes Hotel è uno degli alberghi più lussuosi di Londra, famoso per il suo stile imperiale e per l’eleganza e la sofisticatezza che si respirano fra le sue mura. L’ingresso, sulla facciata di mattoni rossi dal gusto fin-de-siecle, si apre fra due file verticali di bovindi che connotano le stanze più esclusive fra le 90 a disposizione della clientela. Dentro di me, intanto, maturavo la segreta convinzione che il nostro vagare non fosse così tanto casuale quanto inizialmente sembrava, ma piuttosto che il mio collaboratore sapesse già dove mi stava portando dopo che dalla mia bocca era uscita a fine giornata la frase “Andiamo a bere qualcosa, offro io”. Oramai non potevo più tirarmi indietro. E così siamo entrati.

    Niente di quello che posso scrivere può essere in grado di fare rivivere dettagliatamente l’emozione che ti prende quando metti piede in uno dei luoghi sacri della mixology. Il bar del Dukes, infatti, è conosciuto come il padre putativo del Dry Martini Cocktail. Fra le personalità che hanno consumato il drink ai suoi tavoli di radica ci sono figure del calibro della Regina Madre e di Ian Flaming, che fra la moquette che ricopre il pavimento e le fotografie di prestigiosi avventori appese alle pareti sembra aver deciso che il Vesper Martini diventasse il cocktail icona del suo personaggio letterario più famoso, l’agente segreto James Bond. Negli anni ’80 Salvatore Calabrese fu il primo barman a rendere popolare in tutto il mondo il Dry Martini Cocktail del Dukes. Oggi, quel compito è saldamente tenuto dalle mani di Alessandro Palazzi.

    Alessandro Palazzi e l’arte della lettura

    In quell’occasione abbiamo avuto la fortuna di essere serviti dal signor Palazzi in persona, e credo sia una delle esperienze della mia vita che non dimenticherò mai più. Arrivato al nostro tavolino, spingendo un carrello bar, ci ha innanzitutto dato il benvenuto, mettendoci a nostro agio, con un tono di voce caldo e profondo, maturato da un’esperienza cinquantennale nel settore dell’ospititalità. tale da riuscire a farsi sentire molto distintamente senza sovrastare i dialoghi delle persone sedute adiacenti a noi. Con immenso savoir-faire ci ha introdotto alla storia del Dukes, e tra un aneddoto e l’altro ha fatto capolino la domanda “Signori, cosa vi preparo intanto?”. Dopo aver accolto la richiesta di due Dry Martini cocktail, ha continuato a fare gli onori di casa mentre con gestualità delicata iniziava a realizzare il nostro ordine.

    E così da storie vecchie di un secolo, senza che quasi ce ne accorgessimo, ha iniziato a raccontarci della propria idea di Martini, spiegando di volta in volta l’ingrediente che stava maneggiando mentre la preparazione avveniva sotto i nostri occhi: dal vermouth dry inglese con cui aromatizza le coppette di servizio, svuotandone il contenuto sul pavimento della sala (giustificandosi con un sardonico “Il vermouth inglese può finire solo su una moquette”), all’aromatic bitters con cui aggiunge un tocco di complessità alla bevuta; dalle scorze dei limoni biologici che si fa recapitare direttamente da Amalfi per connotare in maniera unica il proprio Dry Martini cocktail, alla selezione di gin ghiacciati presenti sul carrello bar. Perché si, qualora te lo stessi chiedendo, il Dry Martini cocktail del Dukes è proprio quello che si racconta in giro: 150ml di gin a -18°C versato direttamente dalla bottiglia in una coppetta da cocktail sporcata con del vermouth dry e macchiata con due gocce di bitters aromatico. “Massimo due Dry Martini cocktail a persona” ci ha confidato Palazzi, “ma la regola può essere infranta a mia discrezione”, ha concluso sorridendo amichevolmente.

    Ecco, in quell’occasione indimenticabile, una cosa ha calamitato la mia attenzione in maniera decisa: la bottiglia di Isle of Harris, una delle tre presenti nella “tavolozza” di Palazzi sul carrello bar. Le tre bottiglie di gin sono sapientemente selezionate affinché ogni cliente possa decidere di creare il proprio Dry Martini cocktail scegliendo fra una delle etichette che Palazzi porta in giro per la piccola sala del Dukes. In quel momento, rapito da quanto stavo vivendo, mi sono fatto consigliare da Palazzi in persona.  La sua scelta ricadde proprio sul gin scozzese e devo ammettere che ebbe un’intuizione più che azzeccata: le note calde, avvolgenti e marine di Isle of Harris non venivano smorzate nemmeno dalla bassa temperatura di servizio del gin, garantendomi una piacevolezza di bevuta che a lungo ricorderò. Solo dopo aver pagato il conto ed esserci congedati dalla magia che si respirava al bar dell’Hotel, si è affacciato nella mia mente il pensiero che, da grande professionista qual è, Palazzi doveva aver notato con la coda dell’occhio la curiosità che mi aveva catturato nei confronti della bottiglia di Isle of Harris, intuendo un non troppo manifesto desiderio di sapere di più su quell’etichetta. Insomma, senza rendermene conto, Palazzi con discrezione sopraffina aveva colto i messaggi non verbali del mio corpo e mi aveva lasciato contribuire in prima persona a creare un attimo che sarebbe rimasto per sempre nel mio background emozionale.

    Il Martini perfetto

    Concludo questo articolo rispondendo ad una domanda che in molti mi rivolgono quando racconta loro della mia esperienza al Dukes, ovvero “È il Dry Martini cocktail perfetto?”. La risposta è un secco “No”, ma non per mettere in dubbio le qualità di un maestro dell’ospitalità della caratura di Alessandro Palazzi, ma perché semplicemente non esiste il Martini perfetto. O meglio, esiste il Dry Martini cocktail perfetto per ogni cliente, specialmente quando è chirurgicamente inserito in un preciso istante della sua vita. Credo che nella realizzazione di questo drink l’attenzione del barman non debba concentrarsi sulla tecnica da impiegare (stir o shake?), sulla struttura da seguire (in&out o con il vermouth lasciato nel bicchiere?) o sulla ricetta (quanti ml di gin?), ma sul cliente. La bravura di Alessandro Palazzi nella storia che ho descritto è stata la sua capacità di lettura nei confronti della mia persona, valutando l’esperienza che stavo vivendo in quell’istante e decidendo di legare per sempre un sapore ad un ricordo, lasciandomi ammirato ed eternamente grato.